di Elisabetta Marsigli
Ph. Luca Toni
Parliamo con Matilde Leonardi della sua professione di medico e neuroscienziato: una vocazione alla scoperta e all’approfondimento che si trasforma in utili cure per chi soffre.
Curare, prendersi cura di qualcuno: la cura è responsabilità e Matilde Leonardi ne conosce bene il suo profondo significato. Nata a Pesaro, ora vive e lavora a Milano. Laureata in Medicina con due specializzazioni in Neurologia e in Pediatria, è attualmente Direttore neurologo presso la Fondazione IRCCS Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, nella Direzione Scientifica. Da anni si occupa di disabilità, salute pubblica, neurologia, in particolare come e disordini di coscienza e politiche socio-sanitarie in Italia e all’estero.
La sua passione arriva da lontano.
“Non so se si possa parlare di passione: io sono un medico, non faccio il medico. Non avevo ancora fatto la prima elementare e già avevo detto ai miei che volevo essere un medico. Non ho più cambiato idea ed è una scelta che rifarei ogni giorno.”
Un percorso lungo e non privo di ostacoli e difficoltà, che Matilde ha affrontato con la tenacia e l’energia che la contraddistinguono. Ha iniziato come pediatra e, dopo una decina d’anni, passa a neurologia, la sua primigenia passione. “Nel privato sono anche una donna molto amata e questo mi ha permesso di superare le difficoltà che la vita mi ha messo davanti.”
Ma che cosa significa curare per Matilde?
“Curare non è necessariamente guarire: come neurologo i miei pazienti spesso non guariscono, ma si possono curare. Curare significa accettare, profondamente. La curiosità è alla base del lavoro dei ricercatori: cercare quello che non c’è partendo da quello che c’è. Strade nuove che offrano un miglioramento per la salute, questo il mio punto fermo, condizionato anche dalla mia esperienza a Ginevra, nell’Organizzazione Mondiale della Sanità.”
“Il mio metodo di lavoro affronta tanti aspetti, tutti gli elementi che abbracciano un metodo biopsicosociale, perché ogni persona non è mai indipendente dall’ambiente che la circonda.”
Una missione, una ragione di vita?
“Una missione non lo so, ma se mi chiedessero cos’altro avrei voluto fare, risponderei questo. Sono onnivora di conoscenza. Il mio metodo di lavoro affronta tanti aspetti, tutti gli elementi che abbracciano un metodo biopsicosociale, perché ogni persona non è mai indipendente dall’ambiente che la circonda. In questa relazione dinamica, ritengo che si possa fare molto osservando l’ambiente, che funge da barriera o facilitatore, così come per le relazioni.”
A proposito di relazioni: questo è un lavoro che assorbe molte energie rispetto alla vita privata?
“Per me, come per molti colleghi, questo non è propriamente solo un lavoro: siamo tutti dei lottatori, lavoriamo spesso contro malattie difficilissime e lottiamo per i nostri pazienti. Chi fa ricerca sa cosa intendo. Le relazioni sono importantissime: essendo un neuroscienziato dovrei dire ti amo dal profondo del mio cervello, ma sono profondamente convinta che il mondo relazionale e affettivo funzioni esattamente come un cuore, tra sistole e diastole, tra tensione di sé verso l’esterno e accettazione dell’altro in sé, in continua alternanza. La mia vita è fatta di relazioni e se le persone pensano di essere da sole è perché non hanno mai alzato la testa.”
Il suo rapporto con Pesaro?
“Essere nata a Pesaro mi dà la dimensione dell’infinito: quello che mi ha sempre detto mio padre, ora uno splendido ultra-novantenne. Chi nasce sul mare non è uguale agli altri e si porta dentro questa profonda dimensione di infinito, per sempre.”
Articolo pubblicato su Pesaro IN Magazine 01/2020